Vino e critica internazionale dopo Parker 10| Alessandra Piubello (Italia)


Alessandra Piubello

Alessandra Piubello

di Chiara Giorleo

Come sta evolvendo la comunicazione in Italia e all’estero? Come l’offerta formativa, oggi molto più ampia, può influire e sta influendo sul trend della comunicazione del vino, sempre più sofisticata e ancor più necessaria.

Oggi lo chiediamo ad Alessandra Piubello

Ad Alessandra non piace parlare di sé e ironizza: “In un mondo in cui bisogna sapersi vendere, sono in partenza fuori gioco! Non cercarmi su facebook o su twitter. Non ci sono”.

In breve: Alessandra è giornalista, scrive di vino e di cibo (per lei l’uno non va senza l’altro), da quasi quindici anni. Collabora con Spirito diVino Italia e Asia, Decanter, Cucina e vini, L’Espresso Ristoranti d’Italia, Artù, Livein Magazine, James, Sommelier Veneto, Sommelier India, Barolo & Co., Cook_inc. É direttore responsabile di Queen International e Prince. É co-curatrice della Guida Oro I vini di Veronelli. Partecipa come giudice a concorsi enologici nazionali e internazionali (fra gli altri, Decanter, Mondial de Bruxelles, Vinalies, Mondial des Pinots). É membro di numerose associazioni di settore italiane e straniere. Direi che può bastare, anche se “frecce professionali al mio arco ne ho ancora parecchie”, sostiene. Se vuoi saperne di più, preferisce davanti ad un bicchiere di vino, senza computer di mezzo, guardandosi dritti negli occhi, dopo essersi scambiati una franca stretta di mano.

Come sei “inciampata” nel settore vino?

Il vino è parte della mia vita fin da piccina. Papà aveva delle vigne in Valpolicella, producevamo vino per noi e per gli amici. Lo aiutavo a vendemmiare, a controllare le botti, a lavare le bottiglie, a tenere pulita la cantina. Ricordo benissimo tutti i profumi del vino, dall’inizio alla fine. Ero io l’incaricata di scendere in cantina a prendere il vino per pranzo e per cena. Ho iniziato a sorseggiare vino da molto, ma proprio molto piccola, seppur ovviamente allungato con l’acqua. Per noi veneti è abbastanza normale, il rapporto con il vino è molto stretto, è quotidiano, è familiare. Come cantiniere c’era un signore, Carlo, che era sopravvissuto alla campagna italiana in Russia e alla disastrosa ritirata. Papà era sopravvissuto ai campi di concentramento. Entrambi ne avevano viste di tutti i colori e ricordo come il vino, che non mancava mai alla nostra tavola e tutti ne bevevamo, dava la stura a racconti di vita che io, piccolina, ascoltavo rapita. Papà mi aveva avuta molto tardi e gli anni che ci separavano erano molti, eppure in quei momenti era come se ogni differenza d’età, di ruoli, di generazioni, si annullasse, ed era come se il vino aiutasse nel transfer culturale, facendoci sentire tutti parte di questa grande avventura che è la vita. Poi nel corso del tempo non ho mai abbandonato questo fil rouge che mi ha sempre accompagnato, seppur inseguissi altri sogni. Fino a quando ho capito, dopo anni di giornalismo nel settore cultura (cinema, teatro, letteratura) che il vino e il cibo erano la sintesi di un mio percorso interiore e mi ci sono dedicata completamente.

Come credi sia evoluta la critica negli ultimi 30 anni e da chi hai imparato di più?

Credo che stiamo vivendo un periodo molto difficile. Ovviamente non ci sono più i padri fondatori della critica in Italia. Veronelli su tutti, a lui dobbiamo la nascita della comunicazione di questo settore, lui si è battuto per dare dignità e per valorizzare tutto il mondo del vino. Un fuoriclasse, persone così ne nascono una al secolo. Ci sono stati altri, ma non all’altezza della sua statura. Penso che ad oggi, la critica italiana si stia estinguendo. I giovani temo si stiano disamorando del vino, e questo mi preoccupa tantissimo per il futuro (anche della critica). Si avvicinano, un po’ per moda, un po’ perché è di tendenza, un po’ per curiosità, un po’ per farne un business, ma non entrano nell’essenza del vino. Che richiede studio, dedizione, immensi sacrifici, investimento di tempo e di soldi. In una parola: amore. Penetrare i segreti di quell’unicum, che ogni anno è diverso dall’anno prima, e sarà diverso l’anno dopo, è un bell’impegno. E richiede dei maestri che sappiano motivare, spiegare, far innamorare. Credo che i maestri in Italia purtroppo non ci siano più. Negli ultimi anni i critici o presunti tali han pensato di tenersi tutto il sapere ben stretto per sé, seguendo la strada dell’autoreferenzialità, con un atteggiamento elitario, snobista e da primedonne che fa male al mondo del vino; i pensionati continuano a lavorare nel settore non permettendo un ricambio generazionale e la critica non ha saputo rigenerarsi. E così siamo nella confusione, dove tutti dicono tutto e il contrario di tutto tronfi nel loro ego enoico, dove contano di più i follower dell’attendibilità di quello che scrivi. Ci sono invece moltissimi giornalisti di settore e degustatori che stimo e ammiro, ma loro per primi non si definirebbero mai dei critici.

Da chi ho imparato di più? Da Axel Marchal mio insegnante all’università di Bordeaux, da Stéphane Derenoncourt wine maker, da Maurizio Colia mio insegnante al WSET, da Steven Spurrier di Decanter, da Giuliano Boni di Vinidea. In realtà ho sempre imparato qualcosa, da produttori, colleghi, enologi. E li ringrazio, anche se non posso fare i nomi di tutti. Ma il mio più grande maestro è lui, il vino. É lui che mi parla e mi guida.

Pensi che in Italia ci sia un deficit nella comunicazione dei prodotti enoici rispetto alle potenzialità delle risorse?

Sicuramente. Soprattutto non abbiamo ancora imparato come comunicare: anche qui, ognuno gioca per sé. Sono poche le realtà che cercano una strategia di comunicazione che possa far fare un salto in avanti a tutto il comparto. Credo comunque che rispetto a tempo fa ci siano delle prospettive, c’è maggior consapevolezza e ho fiducia che troveremo la via.

È noto che sia molto migliorata l’offerta formativa a disposizione di coloro che vogliono formarsi sulla tecnica di degustazione, la sommellerie, la geografia del vino e tutto il resto. Come credi che questo stia incidendo e inciderà sul presente e sul futuro – nemmeno troppo remoto – della comunicazione del vino?

Ritengo che tutta l’offerta formativa a disposizione sia un bene. Tutto ciò che accresce la conoscenza e il sapere sul vino è un dono positivo. Molto però deve poi essere fatto a livello individuale, allenando lo spirito critico e la degustazione, con continui assaggi. Non si diventa un bravo degustatore dopo un corso, il percorso è molto lungo, spesso frustrante. Occorre molta determinazione, resistenza e passione. Il passo successivo poi, essere un bravo comunicatore del vino, non è per tutti. Ci vogliono doti che non si improvvisano, soprattutto se si aspira ad un certo livello di comunicazione. Quindi, non è detto che tutta questa offerta, continuamente in espansione (d’altronde, è un business), porti poi a far emergere dei comunicatori del settore autentici e autorevoli. Ce ne sarebbe bisogno, a tutti i livelli. Credo sia solo questione di tempo però, dato che le premesse perché ciò avvenga ci sono.

Quali sono i presupposti per l’indipendenza della critica enologica?

L’onestà, il rigore, l’integrità, l’autorevolezza. Il parlare chiaro, pur nel rispetto, dimostrando che prima di esporsi con critiche fondate si è approfondito a lungo, con disciplina e metodo. La critica deve avere il coraggio di segnare una strada, valorizzando chi merita, senza preconcetti o religioni enoiche. Deve essere libera. Purtroppo in un mondo in cui gli editori sfruttano fino all’osso i giornalisti, pagandoli poco e tardi, chiedendo sempre di più e spingendoli forzatamente alla mezza bugia (altrimenti perdono il cliente), non è facile avere la forza di stare con la schiena dritta, ritti in piedi sulle proprie gambe, riuscendo a mantenersi. Quindi non esiste praticamente più la figura del vero critico giornalista del vino, o meglio, è una specie in estinzione. Infatti, per poter sopravvivere, dovrebbe occuparsi di altro, che esula la pura critica in sé e per sé, ovvero di Pubbliche Relazioni, di uffici stampa, di organizzazioni eventi, oppure di marketing e vendita (con evidenti conflitti d’interesse). Io stessa, pur non arrogandomi nessun titolo di critica, che ad oggi vivo solo ed esclusivamente di giornalismo, (peraltro solo carta stampata, considerando che sul web praticamente nessuno paga) mi sento un panda… non so per quanto tempo riuscirò a resistere, quando ormai tantissime testate chiudono. E che io sono fortunata e lavoro con persone serie, che reggono ancora, ma la situazione generale è questa. D’altronde, con che armi ci si può difendere da chi non sa distinguere tra un professionista e un hobbista (e gli fa comodo non capirlo, così non paga)? Da un altro lato, cosa dire a quei produttori che non sono in grado di accettare nessuna critica, sentendosi sempre superiori? Che se però li metti ad assaggiare i loro vini alla cieca non li sanno nemmeno riconoscere e li criticano aspramente pensando che siano quelli della concorrenza?

Bisognerebbe farsi tutti (editori, giornalisti, produttori, comunicatori) un bell’esame di coscienza ed iniziare a parlarci su basi diverse, attraverso un lavoro di squadra onesto, diretto e sincero, smettendo di prenderci reciprocamente in giro. Sarà mai possibile? Perché il rischio è quello di creare un solco sempre più profondo con i giovani e con gli appassionati di vino, anche quelli alle prime armi. Un solco che diventerà un baratro se non facciamo presto qualcosa tutti insieme.

Chi vedi nel futuro della critica enologica?

Ho pensato a lungo ad un responso per questo quesito. Ci sto pensando tuttora. Non ho ancora trovato una risposta, forse perché in generale purtroppo non vedo un futuro nella critica enologica italiana.

Un consiglio per: i giovani che muovono oggi i primi passi lavorativi nel settore enoico, i consumatori più o meno appassionati, i colleghi.

Non mi sento all’altezza di dare consigli, ho sempre vissuto nell’understatement, lavorando duramente senza preoccuparmi di apparire, di fare la prima donna, di essere “visibile” (la “visibilità” nel nostro settore è una merce di scambio molto gettonata che in realtà nasconde uno sfruttamento che toglie dignità alla professione). Non potrei mai salire sul pulpito e dispensare consigli. Posso solo portare la mia esperienza, le parole che mi ripeto ogni giorno, quelle di Steve Jobs: “Siate affamati, siate folli”. Il mio carburante è la fame di conoscenza, la sete di sapere, la follia della passione. E il Tuo, qual è?

Interviste precedenti
1-Alessandro Torcoli, Italia
2-Horia Hasnas, Romania
3-Cathy van Zyl, Sud Africa
4-Akihiko Yamamoto, Giappone
5- Arto Koskelo, Finlandia
6- Aldo Fiordelli, Italia
7 – Caro Maurer MW, Germania
8 – Madeline Puckette (USA)

9 | Ned Goodwin MW (Australia)