Roberto Restelli, ex direttore Michelin Italia: la rossa è superiore perché più omogenea ed è fatta per chi viaggia, non per coltivare l’ego degli chef


Roberto Restelli, ex direttore della Michelin

Roberto Restelli, ex direttore della Michelin

di Luciano Pignataro

Chi è Roberto Restelli?
Per undici anni, dal 1977 ho svolto il ruolo di ispettore della Guida Rossa, tanto è il tempo necessario per coprire l’intero territorio nazionale palmo a palmo e nei dodici anni successivi ho ricoperto il ruolo di responsabile dell’edizione italiana fino al 2000. Sono passato poi ad occuparmi di comunicazione per l’intero Gruppo, conservando però come naturale, affetti, legami e passione per il mondo della ristorazione.

Come si diventa ispettori Michelin? Oggi, che tu sappia, sono cambiati i criteri rispetto ai tuoi tempi?
A suo tempo risposi ad un’inserzione che pur senza citare Michelin, parlava di una multinazionale che cercava personale disposto a viaggiare sul territorio nazionale per la compilazione di una guida turistica.Superai i vari step di selezione, ma la mia era una candidatura alquanto anomala ed i miei studi di filosofia erano visti con un certo sospetto.
Il profilo privilegiato, infatti, era ed è tuttora quello di formazione alberghiera

 

Quali sono stati a tuo giudizio i maggiori cambiamenti nella cucina italiana in questi tempi.

Quando iniziai, alla fine degli anni ’70, la cucina italiana usciva da una connotazione fortemente regionale ed in questo panorama alcuni capisaldi ancora resistevano: il Cantarelli di Busseto, il Fini di Modena, l’Antico Martini e l’Harrys bar a Venezia, il Giannino a Milano. Già si affacciavano però locali che avrebbero fatto la storia della ristorazione italiana moderna: Gualtiero Marchesi che iniziò, con la stella del 1978, la scalata che lo avrebbe portato ad essere il primo, ed a lungo il solo, tre stelle in Italia nel 1986. Nello stesso clima germogliavano locali come la Cassinetta di Lugagnano, Guido a Costigliole, l’Enoteca Pinchiorri, il Trigabolo ad Argenta, il Rododendro di Boves ed il Don Alfonso di Sant’Agata, il 3 stelle più a sud in Europa! Si era ormai agli anni Novanta, un periodo di grandi trasformazioni nella ristorazione, che seppe far tesoro del patrimonio tradizionale, arricchendolo di spunti di geniale fantasia – anni fertili visti i livelli cui è giunta la tavola in Italia, quanto pericolosi viste alcune recenti derive…

 

Secondo te le guide, compresa la Michelin, non hanno finito per allontanare il pubblico a furia di premiare spesso ristoranti che non si reggono con i propri numeri e che per reggersi devono sbarcare il lunario con consulenze, banchetti e comparsate in TV?

Sarò di parte, ma devo sottolineare che natura e scopo della Rossa sono assai differenti da quelli delle altre Guide; la Michelin resta una guida di servizio, all’automobilista, e non pretende – suo malgrado -di fare tendenza, piuttosto di fotografare al meglio la situazione reale. Capitolo a parte i fraintendimenti e la dietrologia che la accompagnano da sempre e che ha spinto tanti chef a perdersi alla ricerca del senso frainteso della stella.

 

Non c’è, secondo te, un corto circuito eccessivo tra critica e oggetto della critica? Perché in Italia si ha la sensazione che sia tutto un circo?

Sicuramente c’è molta autoreferenzialità che fa perdere di vista la centralità dell’attività di cucina che dovrebbe essere volta a trasformare in gioia prodotti ricchi di storia. La spettacolarizzazione che esiste ovunque, ma che in Italia ha raggiunto livelli imbarazzanti, ha completato il quadro distorcendo la prospettiva e puntando su competizione ed autoaffermazione, a mio avviso all’opposto della convivialità che si dovrebbe perseguire a tavola.

 

Quali ripensamenti dovrebbero fare oggi i cuochi che aspirano a costruire il futuro della cucina?

Penso dovrebbero affrancarsi da stereotipi e vizi mentali. Perseguire la propria realizzazione professionale non scordando mai che il ristorante è luogo di incontro di esigenze diverse e sta a loro fare in modo diventino complementari e non conflittuali. Soddisfatti i criteri di qualità, per fare una cucina di eccellenza dovrebbero investire per passare dall’oggettività della soddisfazione del bisogno alla liberta della cura del desiderio. Sono due consumi emozionali che debbono trovare un’armonia condivisa; lo chef vive di emozioni e per il cliente il consumo emozionale viene prima di quello materiale; si possono regalare emozioni ed evocare ricordi sensoriali, che chi siede a tavola neppure sapeva di avere, a patto che la fantasia dello chef si nutra di concretezza.

Il grosso investimento da fare è sulla cultura; la cucina è un’espressione culturale, ma è solo una parte della cultura generale. La competenza tecnica non basta e per intercettare i desideri dei clienti occorrono approcci molteplici, perché diversi sono i percorsi che conducono allo stesso incontro. In un motto che faccio mio, si deve “Aprire il pensiero”.

Quanto alla Rossa, ricordare che la stella nasce dalla soddisfazione dei clienti – sta alla Guida riconoscerla – e non un miraggio da inseguire a tutti i costi.

E quali i ripensamenti se ci sono, della formula di una guida di ristorante? Come mai quelle italiane hanno perso peso a favore della Michelin e di TripAdvisor

La particolarità della Michelin è la forma sintetica in cui è redatta; i simboli la rendono facilmente interpretabile. Farei due considerazioni diverse: circa le altre guide spesso non sono omogenee nei giudizi, avendo referenti regionali diversi a differenza della Rossa che applica una sistematica rotazione degli spettori. TripAdvisor non era partita male, una sorta di consiglio tra amici, poi si è persa in strategie commerciali discutibili ed è diventato arena dei soliti leoni da tastiera, che si prendono per affermati critici. La facile consultabilità della formula è un pregio che da anni ormai anche Michelin ha fatto sua con un’app gratuita che riporta la selezione dei ristoranti dell’anno.

Secondo da te la Michelin davvero snobba l’Italia? E perché? Cosa deve fare un italiano per farsi prendere in considerazione?

Questo è un ritornello che accompagna da sempre la Rossa. Certo la Guida ed i suoi criteri sono nati in Francia e chi conosce la ristorazione di quel Paese, sa quanto merito abbia avuto nel promuovere una ristorazione di qualità, ma ogni Guida può definirsi nazionale; in Italia l’equipe è italiana, pur avvalendosi di contributi di ispettori di altri paesi. Certo è innegabile una notevole disparità nell’attribuzione delle stelle tra Francia ed il resto del mondo, ma è dovuto più al rigore nel voler vedere rispettati i criteri di assegnazione che a manovre scioviniste di salvaguardia di interessi.

Detto questo ritengo che ogni responsabile nazionale possa e debba esercitare una funzione di salvaguardia e di valorizzazione delle peculiarità nazionali.

Il sistema Michelin è stato messo in crisi da 50Best? E dalla Liste?

Direi proprio di no. 50 best è la novità più glamour e spettacolare che, tra l’altro si basa su una selezione in buona parte di stellati, mentre per quanto riguarda le liste esistono da sempre, anche se ora la rete le ha forse rese più pericolose, almeno per chi naviga in modo inconsapevole.

Il mondo è sempre più fusion. Ha senso difendere la cucina tradizionale?

Non esiste fusione se non partendo dagli elementi; a questo proposito Alajmo ebbe a dire che: “Non c’è verità se non quella contenuta negli ingredienti” – dal viaggio verso il loro centro parte qualsiasi esperienza che si voglia significativa – l’esatto contrario di quanto pratica quella che chiamo la cucina “cosmetica”.

Dobbiamo poi intenderci sul concetto di tradizione. Per me tradizione, non comporta uno sguardo nostalgicamente volto al passato, spesso mistificato; penso piuttosto ad un punto dal quale partire nella ricerca. Anche se non si hanno tradizioni in famiglia, l’importante è delineare una sorta di costellazione famigliare-professionale che costituisca un patrimonio ed un riferimento dal quale intraprendere il proprio viaggio.

 

Quali sono i maggiori pregi e difetti oggi dei cuochi ?

La professione del cuoco richiede dedizione, sacrificio, un impegno che solo chi abbia frequentato una cucina può immaginare. Le derive sono sempre dietro l’angolo: l’autoreferenzialità cui abbiamo accennato, lo sfiancante spirito di competizione, il miraggio della stella. Solo facendo pace con se stessi e le proprie aspirazioni, lo chef potrà assolvere appieno al suo compito che è quello di rendere indimenticabile l’effimero.

Si tratta di lasciar perdere il superfluo, il contingente, il fuorviante e soprattutto fare un uso oculato della tecnica che non è un fine, ma mezzo per creare una terra d’incontro tra innovazione e tradizione. Voler sorprendere a tutti i costi è fastidioso quanto non lasciar spazio alla divagazione fantasiosa.

 

A un giovane che vorrebbe fare il tuo lavoro cosa consiglieresti? Come si deve formare?

Di crederci, di impegnarsi ad acquisire competenze, di compiere una sorta di viaggio che percorra gli spazi che vanno dall’oggettività del cibo alla soggettività della sua percezione, andando a ritroso alla ricerca del punto di non ritorno che ha modellato il nostro gusto.

Solo così si potrà esprimere un giudizio che sia il più obiettivo possibile, indagando i presupposti della nostra personale disposizione nei confronti del cibo; un percorso tra bisogno e desiderio appunto, alla ricerca dell’equilibrio. Ognuno dovrà impegnarsi ad acquisire una mappatura che permetta di orientarsi tra impressioni sensoriali e suggestioni evocative. …Come per ogni viaggio l’unica regola è: non tornare come si è partiti.