Dieci anni di Trippa a Milano, la trattoria che ha fatto la rivoluzione
Trattoria Trippa a Milano
Via Giorgio Vasari, 1,
Telefono: 327 668 7908
Aperto la sera, domenica chiuso
di Giulia Gavagnin
Ha compiuto dieci anni l’insegna milanese che ha cambiato per sempre l’idea e il senso della trattoria.
E l’ha fatto con una festa dal sapore universitario, che si acconcia a chi è ancora nel mezzo del cammin di nostra vita e ha ancora tanto da dire e da dare.
Musica, birra e mortadella, un gran crocchio di persone sui marciapiedi di via Vasari sin dalle sei e mezza con un sole ancora africano, e lo chef in tenuta balneare.
Di chi parliamo? Di Trippa, what else.
La creatura di Diego Rossi e Pietro Caroli, che non solo esiste e resiste insieme a noi, ma è ancora, e di gran lunga, l’attività di ristorazione di maggior successo ed “hype” a Milano.
A Milano! Dove notoriamente tutto cambia in continuazione, dove i locali à-la-page sono sold out per qualche mese, poi se li chiami ti dicono che no, oggi non ho posto ma, aspetti che guardo, per caso mi si è liberato un tavolo ma venga alle nove, poi ci vai alle nove e non c’è nessuno e chiedi: ma scusi, non aveva detto che era tutto pieno?! E ti rispondono, magari per bocca di una minuta e graziosa signorina visibilmente digiuna da cibo in tutti i sensi che: sa, abbiamo avuto tanti no show. Poi ci torni, e non c’è ancora nessuno, e ti dicono: che strano, ieri era pieno e domani pure, chissà oggi cosa sarà successo, sarà la partita di calcio (poi scopri che non era il derby ma Lumezzane-Baranzate).
Ecco, Trippa non è proprio così, sono trascorsi dieci anni esatti da quel giugno in pieno Expo in cui si parlava piuttosto bene di questi ragazzi veneto-pugliesi, e prenotare da Trippa è ancora oggi più difficile che in Osteria Francescana, altro che se vieni domani non trovi posto.
E perché –diamine- questo posticino dai “nudi tavolacci” (cit.) di legno mogano e le pareti ocra è ancora così gettonato?
Direbbe Diego Rossi, conoscendolo: “perché sono bravo”.
Caro Diego, sai quanti sono bravi ma, mi scoccia dirlo, a tuo modo sei un fuoriclasse!
Diego Rossi, di San Giovanni Lupatoto, provincia di Verona, con note esperienze stellate (mi vengono in mente Antiche Contrade a Cuneo e Niederkofler a San Cassiano) ha saputo fiutare un vento che soffiava da lontano, e intuire che stava tornando il tempo del sangue e della verità vs. i barocchismi e le superfetazioni della cucina stellata.
E’ arrivato a Milano e si è inserito nel giro di un manipolo di chef e maitre urbani e tatuati più o meno coetanei che hanno innovato profondamente il tessuto del capoluogo lombardo attraverso una bistronomie assai attenta alle istanze provenienti dall’estero: mi riferisco a Matteo Fronduti, Matteo Torretta, Eugenio Roncoroni e Beniamino Nespor, Misha Sukyas, Eugenio Boer. I loro sentieri si sono poi divisi, in progetti radicalmente diversi, ma l’idea di uscire dai binari del ristorante classico e del locale-fuffa da post-aperitivo milanese era comune.
Tuttavia, Diego Rossi, con la terragna pervicacia tipica del veneto, ha saputo fondere la sua naturale propensione alla creatività, la tecnica appresa in grandi cucine e la volontà di portare a Milano una versione personale, riveduta e corretta della bistronomie internazionale fino a rivoluzionare il concetto di trattoria.
Trippa, infatti, è trattoria contemporanea intesa nel senso di luogo del cibo come esperienza mutevole, solo relativamente ancorata alla tradizione regionale che impone diktat esecutivi o di risultato.
Il suo corrispondente è forse solo il bistrot francese, quel luogo dove i sofismi e gli orpelli della grandeur tipici dell’haute cuisine transalpina sono abbandonati in favore di un’immediatezza che non trascura le radici e abbraccia la creatività in senso libero: trasformazione della materia senza stravolgerla o violentarla.
Sta in questo la rivoluzione di Trippa, che non è in alcun modo una trattoria strettamente ancorata alla tradizione, ma la riscrive, fino a diventare un classico.
Diego Rossi è partito da un modello londinese à-la-St John’s di Fergus Henderson che nel suo epocale Nose to Tail Eating ha nobilitato la cucina del Quinto Quarto rendendola una cucina per veri fighi sino a giungere ad una sorprendente e personale interpretazione del vegetale.
In questo percorso ci ha consegnato i “classici” di Trippa. Fin da subito, la trippa fritta al rosmarino e la trippa del giorno; il famoso vitello tonnato col sifone che può fare solo lui (nel senso che se Diego non è in cucina, niente vitello tonnato); il midollo alla brace. Poi, visto il successo crescente, la tartare di cavallo ed erba cipollina e le lumache di Cherasco al verde, fino a giungere all’ultimo “instant classic”, le tagliatelle al burro e parmigiano: 100 grammi di tagliatelle tirate al mattino; 90 grammi di burro di malga e 30 grammi di parmigiano. Un mix irripetibile, una sorta di ricetta segreta della Coca-Cola per la riscrittura contemporanea dell’Alfredo di romana memoria.
Nel mezzo, un menu che cambia in continuazione a suon di stagioni, nel corso della mia lunga militanza sul bancone davanti alla cucina (godetevi lo spettacolo di questa diecina di giovani cuochi con la t-shirt e la bandana in testa che macinano piatti come giocolieri cinesi) ho assaggiato piatti truci, come: teste di pesce con i loro occhi, i rigatoni alla pajata della vita, insalate di diaframma, di polmone e di esofago, rognoni di coniglio, testicoli di toro; ma anche delicatissime insalate di pomodoro cuor di bue, la pappa al pomodoro di Gian Burrasca (a dire il vero, per fortuna, era edibile), l’insalata di tallo d’aglio con gallina sfilacciata; le zucchine trombetta alla scapece; la zucca arrostita con fonduta di cacio e peperoni; la rapa arrostita con fonduta di blu di capra, la tradizionale fonduta piemontese con tartufo d’Alba e chi più ne ha più ne metta.
Tutti connotati dalla capacità fuori dal comune di Diego di saper accostare ingredienti apparentemente semplici in modo da estrarne il massimo dell’esperienza gustativa, sì da rendere ogni piatto incredibilmente “vivo”.
E’ questo il segreto di Trippa: d’essere un locale di gente e di piatti vivi, di vivere nel presente e in grande spolvero, che tanto si sa che del doman non c’è certezza, figurarsi rincorrere improbabili stelle.
Per questo Ferran Adrià a febbraio non ha esitato ad andare qui, perché è uno degli chef più intelligenti mai esistiti, e ritirandosi anzitempo come Michel Platini ha capito che il suo tempo era finito e che Diego Rossi interpreta il proprio con la stessa vitalità dei tempi di Roses, con un sifone che gira sul tonnato a un’altra velocità.
Altresì è per questo che la scorsa settimana gli chef della 50 Best hanno preso d’assalto via Vasari: benché Trippa giochi un altro campionato, parla lo stesso linguaggio con un’altra semantica. L’ultra-contemporaneità attraverso la semplicità che –come sappiamo- è sempre la cosa più difficile.
Oggi auspico che Trippa rimanga il più a lungo possibile la creatura di un ragazzo sognatore, che trasmigri nel triste mondo degli adulti nel modo più indolore possibile.
Perché sì, Trippa è della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e solo attraverso i sogni si diventa grandi con la G maiuscola, come ha saputo fare quella che oggi, a parere di chi scrive, è la migliore trattoria contemporanea d’Italia.
TRIPPA
via Giorgio Vasari 1
20135 Milano
Scheda del 5 gennaio 2020
Trippa a Milano e la cucina ancestrale di Diego Rossi

Trippa Diego Rossi con Pietro Caroli
di Giulia Gavagnin
L’ha chiamata “Trippa” ma avrebbe potuto chiamarla “Cuore”. Perché era stanco di inutili orpelli, di allegorie gastronomiche che non sono nulla, non rappresentano nulla. Diego Rossi è veneto di San Giovanni Lupatoto, sguardo affilato, muscoli e tatuaggi, concreto e passionale.
“Trippa” è la sua trattoria, che dal 2016 fa ha cambiato volto alla ristorazione milanese, diventando un caso nazionale che ormai ha travalicato i confini dello stivale. Pareti gialle, oggetti di modernariato, arredamento essenziale, pare la bocciofila di una periferia urbana qualsiasi. Dopo pochi mesi dall’apertura, le liste d’attesa si sono fatte sempre più consistenti, le prenotazioni online aprono a cadenza mensile e vanno esaurite in poche ore.
Il bancone ha tre posti, è preso d’assalto dai curiosi e dai più appassionati ghiottoni, che diventano parte dell’energia inarrestabile che scaturisce dai giovani della brigata, tutti in maglietta bianca e logo del ristorante, che all’unisono assemblano, mescolano, compongono piatti intensi ed istantanei, forti ed essenziali, perfetti perché imperfetti, come sarebbe piaciuto al più grande chef degli anni ’90, Fulvio Pierangelini, che raccomanda ai giovani di essere imperfetti per non cadere in una sterilità che impoverisce la vita.
Trippa a Milano è stato un successo immediato perché è come se la cucina di Diego Rossi avesse attraversato lo spirito ancestrale del popolo, per mezzo della tavola lo avesse riportato alle origini, all’essenza, come se quei simboli della sua cucina, testa, cuore e fegato, rappresentassero la metafora dell’essere umano stesso nei suoi elementi fondamentale. La cucina di Rossi è pura tradizione italiana e rurale, pesca a piene mani tra il Piemonte della sua formazione, il Veneto delle origini, i mattatoi laziali dei suoi viaggi, ma ha un tocco originale che è soltanto suo e che è difficilmente riproducibile, altrimenti di Trippe ce ne sarebbero a decine.
Invece no, ce n’è’ soltanto una, che continua a servire inimitabili vitelli tonnati rosa con la sua morbidissima salsa ottenuta col sifone, un’asciutta e profumata trippa fritta, il midollo alla brace, tartare di pecora, insalata di cardi, nervetti e bergamotto, terrine di germano reale e radicchio di Verona, spiedini di cuori e centinaia di altre variazioni sull’animale che Diego Rossi estrae a colpi di classe, inventiva e mannaia.
Oggi il suo genio è condensato in un libro, “Finché c’è Trippa…” scritto e pensato a quattro mani con Barbara Giglioli con i suggerimenti musicali di Tommaso Paradiso e la prefazione di due maestri, Riccardo Camanini e Paolo Lopriore.
È un libro di piatti forti, immagini e musica sul “quinto quarto”, certo, ma è soprattutto un manifesto della Nuova Cucina Ancestrale, quella che spedisce in soffitta un ventennio di pinzette, fiorellini, orpelli stellati per riportare al centro testa, cuore e fegato, punti cardinali dell’essenza emozionale attraverso un’attitudine rock, quasi punk, che è tipica delle epoche di rivoluzione.
È un percorso di memoria e di lentezza : “solo chi ci è nato ne conosce il valore. Solo chi ha passato interi pomeriggi mano nella mano con il nonno che racconta storie belle può comprendere. Diego, in ogni suo piatto, mette un po’ di quelle emozioni provate quando era ancora solo un “boceta” dai calzoncini corti. Lui che cresce nella campagna veronese e qui, tra il pollaio e l’orto, impara l’importanza del silenzio e della pazienza. Perché nessuno cosa bella accade velocemente, ogni sono va atteso e desiderato. Così ogni anno, con l’arrivo dei primi freddi, il piccolo Diego non vedeva l’ora che arrivasse il tempo della macellazione…..”.
Da lì, una storia d’amore, a scoprire la gestualità degli adulti, la ritualità dell’uccisione del porco, le donne che preparano il budello per i salami, l’odore forte delle stalle, del sangue, della festa rurale, fino a diventare il moderno cantore dell’ancestrale tra i fornelli della sua trattoria. Del maiale non si butta via nulla, quindi il libro si apre con l’orecchio di maiale alla brace con salsa aioli e rape sottaceto, nell’orecchio indulge compiaciuta l’insalata con cipolla di Tropea agrodolce, tarassaco e ciccioli, non risparmia le sue cotiche soffiate, senza farsi mancare i piedini in zuppa,con ditalini, ceci, baccalà e pecorino, che spolvera anche una grandguignolesca polenta e cipollata di sangue che bagna il raviolo ripieno di animelle.
Un turbinio di organi, tessuti, liquidi, liberi nel fluire attraverso le mani di Diego, icasticamente ritratto nel volume intento a maneggiare una retina di maiale sullo sfondo di calendari di pin-up, come si conviene a chi della vita vuole prendere sempre il meglio. Nel bue “ozioso, placido e sereno” c’è maggiore riflessione, c’è il tocco violentemente inventivo che si stempera: paté di milza al bergamotto, una classica lingua al verde a rinverdire i trascorsi piemontesi di Rossi, che non rinuncia mai alla carne di Martini, tra le migliori d’Italia. Sono le montagne russe di un compendio enciclopedico che fluttua tra le carezze del ragù di cortile della nonna e gli schiaffi dei testicoli di Gallo, tra gli archetipi della cucina regionale di trippe, cibrei, finanziere e le stranezze delle “frattaglie erotiche” con un “membro in insalata” che farà storcere il naso agli accademici della cucina più ortodossi. Del resto, in ogni rivoluzione scorre del sangue, e però, siccome queste culinarie sono rivoluzioni gentili, al massimo qui si sarà sparso un poco di sanguinaccio di troppo, con gioia e curiosità dei sempre più numerosi avventori di Trippa e dei fan di questo ragazzo che dal Veneto ha conquistato l’Italia.
Racconto del 21 novembre 2018

Trippa a Milano
Trattoria Trippa a Milano
Via Giorgio Vasari, 1,
Telefono: 327 668 7908
Aperto la sera, domenica chiuso
di Luciano Pignataro
Credo che nessuno in Italia più di Eugenio Signoroni, curatore della fortunata Guida Osterie Slow Food, l’unica italiana che nelle vendite di mercato butta fiato sul collo alla Michelin, abbia titolo a parlare di questa materia. Non è un Ipse dixit, ma il parere di chi ci lavora da anni e tiene monitorato il settore anche grazie alle radici che l’associazione ha ovunque come nessuno. In un recente articolo su Piattoforte chiude così: L’osteria contemporanea non ha bisogno del neobistrot o del ristorante per esistere e definire una sua identità. Anzi, a ben guardare, forse oggi è il ristorante che ha bisogno di lei.
Insomma far risalire la trattoria moderna all’onda lunga della bistronomie francese, termine coniato dal critico Sébastien Demorand e che vede nel locale di Yves Camdeborde il punto di nascita all’inizio degli anni ’90, significa sostenere che l’Homo Sapiens è una linea diretta evolutiva dell’ Uomo di Neanderthal.
Eh già, perche le radici dell’osteria moderna italiana non possono che essere invece in Italia, il cui scheletro ristorativo pubblico è costituito da osterie e trattorie. Ossia da una ristorazione di servizio per chi è costretto a mangiare fuori che poi in molti casi è evoluto nel ristorante sino a toccare vette altissime. Ancora oggi le cose stanno così visto che nove Tre Stellati su dieci sono a gestione o di proprietà familiare.
Già, la famiglia, forse bisogna proprio partire da qui per capire lo spartiacque tra antico e moderno. Nel senso che la trattoria resta, ma è la famiglia che si sta progressivamente dissolvendo in Italia e sempre più spesso le trattorie sono create da ragazzi, giovani cuochi o giovani imprenditori, che non hanno una tradizione familiare alle spalle nel campo ristorativo.
Questa è la cornice giusta, antropologica, entro la quale ragionare e iniziare a dare delle definizioni.
La trattoria sta cambiando pelle perché sempre più spesso non è più solo una ristorazione di servizio (anche se al Sud è in gran parte ancora così) ma di puro piacere.
In secondo luogo perché sempre più i ragazzi che cucinano hanno maggiore padronanza delle tecniche.
In terzo luogo è moderna perché c’è sempre più consapevolezza sulle materie prime da usare e sulla necessità di tenere alta la qualità dei prodotti.
Il successo rinnovato delle trattorie dipende sostanzialmente da due fattori: la crisi economica che ha visto il reddito pro capite in Italia passare da 38mila dollari nel 2008 ai 30mila nel 2017 e il fatto che il ruolo sociale dei sessi è definitivamente cambiato e che per le giovani generazioni i piatti tradizionali di una volta sono la grande novità. E siccome sono buoni, li cercano!
Perché, diciamocela tutta francamente, la cucina d’autore ha in Italia altissime vette, ma i piatti creativi entrati nell’immaginario collettivo al pari dei classici tradizionali regionali, si contano forse sulla punta delle dita di due mani.
Sbagliata, completamente errata e tipica di chi presuntuosamente fa iniziare la storia con la propria data di nascita, l’analisi secondo cui la trattoria italiana era in decadimento. Al contrario, osserva Signoroni nel suo articolo, è una settore che si è sempre mantenuto tonico anche negli anni più bui della crisi economica. Aggiungiamo che solo adesso sta diventando un segmento gastronomico messo in discussione dalla diffusione delle pizzerie e delle paninoteche o dai locali con più offerta, dove servizio e piacere si coniugano senza discontinuità con prezzi più bassi e qualità sempre più alta.
Piuttosto il tema è un altro: dopo l’ondata televisiva di Masterchef e degli spadellatori in tv è difficile trovare giovani che approcciano il mestiere per quello che dovrebbe essere, far felice il cliente con buoni piatti. Assistiamo purtroppo a decine di tavole caricaturali che vivono di ristoranti vuoti e chef -proprietari impegnati a girare come trottole in pranzi per grandi sponsor per far quadrare i conti.
E’ indubitabile che negli ultimi dieci anni almeno si è pompato un fenomeno che non sempre è autosufficiente economicamente.
Detto questo, ecco spiegato il successo di Santo Palato a Roma e, prima ancora, di Trippa a Milano. Nel locale fondato tre anni fa da Pietro Caroli e dal socio cuoco Diego Rossi non si sta bene, di più: si sta alla grande. A cominciare dal rapporto qualità/prezzo difficile da trovare in questa città. E’ moderna perché, appunto è un posto di piacere, non a caso sta chiuso a pranzo e aperto solo la sera. E’ moderna per le tecniche di cottura, ed è precisa nei sapori dove la materia prima protagonista non ha bisogno di aggiunte ma è essenziale, coraggiosa nella proposizione di interiora, circondata da una carta dei vini aggiornata, curiosa e da un servizio sempre sorridente. E’ moderna perchè è attenta alle tematiche ambientali.
Prenotare non è facile, almeno in questo momento. Dovete rassegnarvi a lunghe attese come abbiamo fatto noi ma ne vale la pena.
Spenderete sui 40 euro, vini esclusi, come in nel nostro percorso che vedete in foto ma che non necessariamente troverete uguale perché uno dei segreti di questo locale è la spesa quotidiana, che varia ovviamente con la disponibilità dei fornitori e la stagionalità.
Motivo per tornarci più volte.
Alè!

Trippa a Milano

Trippa a Milano, trippa fritta

Trippa, le pappardelle al ragu’ di cinghiale

Trippa, mbruglitieddi

Trippa, le lumache

Trippa del giorno

Trippa, lingue di baccala’

Trippa a Milano, midollo

Trippa a Milano, olive e taralino

Trippa a Milano, collo di manzo

Trippa a Milano, stracci di pecora e sottoaceti
Trattoria Trippa a Milano
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“Prenotare non è facile, almeno in questo momento. Dovete rassegnarvi a lunghe attese come abbiamo fatto noi ma ne vale la pena.”: solo questo mi fa passare la voglia…il “puro piacere” è anche voler/dover andare a mangiare fuori e togliersi lo sfizio subito, non doverci pensare con largo anticipo e prenotare. E’ anche per questo che non vado più al ristorante a meno dell’ occasione programmata.
Devo dire che alcuni commenti sono davvero divertenti. Cioè, mi faccia capire: quando c’è una fila in autostrada lei non la prende e resta a casa? Se ci sono tante prenotazioni non è indice di gradimento da parte del pubblico e di ricambio della materia prima? Boh, almen ci inviti a casa sua! :-)
Aperto solo la sera… quindi solo cena… non mi sembra belllo è giusto… un pranzo il sabato o domenica… ci deve essere… per un pranzo con le nonne e altro ….
Certamente è indice di ottima cucina, ma non mi piace andare al ristorante sotto casa, così chiamo io quelli che ho a portata di mano, e doverci pensare tempo prima perchè non ho possibilità di improvvisare. L’ autostrada la prendo quando voglio, all’ ora che voglio, a mangiare sono limitato dall’ orario…..Quando ho un evento familiare o faccio della strada per andarci, allora prenoto….
Per la cronaca sono andato da D’O quando aveva appena aperto, era a 300 metri da casa mia, e ancora nessuno ne parlava. Negli anni successivi ho tentato di andarci le volte in cui mia moglie rientrava stanca dal lavoro e così si decideva di uscire a mangiare: sempre respinto, quasi irriso con la risposta “per venire da noi deve prenotre 3 mesi prima”; purtoppo non posso programmare la stanchezza di mia moglie ne il piacere di alleviarla evitandole di spadellare andando a piedi da D’O…..