Vigna Cinque Querce 1999 Taurasi docg


MOLETTIERI
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: da 35 a 40 euro franco cantina
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno

Salvatore Molettieri

Riflessioni a margine sul Taurasi stile anni ’90

In estrema sintesi: è invecchiato lo stile, certo non il vino. Ma andiamo con ordine.
Annata straordinaria per il Taurasi, mai più ripetuta nella capacità naturale del frutto di raggiungere l’equilibrio. Forse anche meglio della mitica 1997 non fosse altro altro per il numero molto più significativo di interpretazioni a disposizione dell’appassionato. Due le strade agli antipodi, la ricerca del classico nel riserva Mastroberardino 130 anni e l’esibizione muscolare senza precedenti del Vigna Cinque Querce di Molettieri che, quando uscì, si presentò come massima espressione possibile dell’Aglianico.
Eppure oggi sappiamo che non è così: si tratta, è vero, di una delle massime espressioni possibili, ma non certo l’unica. Secondo quanto avevano insegnato i Supertuscans, era necessario volgere il bicchiere all’autoreferenza molto amata dal mercato anglosassone dove anzitutto si amano alcol e dolcezza in eccesso come principali ingressi mentali per conoscere un bicchiere, il rosso. In questa ottica, di fronte a Cabernet, Merlot e Syrah che imperversavano come figli unici sul banco, la strada imboccata dall’Aglianico in veste di competitor non poteva che essere giocata su altrettanto alcol, potenza estrattiva e sfumature dolci del frutto oltre che dei legni. La carta in più, il marker di riconoscimento, costituito piuttosto da una vena acida più testarda a farsi domare e da una spiccata cornice di mineralità espressa soprattutto nella sensazione di pietra focaia. Questo il ragionamento del 1999, evoluto poi nelle annata successive decisamente verso il tono fruttato e più impegnato nella ricerca di quella rotondità morbidosa che nell’Aglianico è sempre una sorta di quadratura del cerchio, soprattutto se invocata prima dei dieci anni. Dunque non dico vaniglia caricaturale, ma liquirizia e note balsamiche tante.
Ecco, appunto, questo vino dieci anni dopo. Ne conoscevamo la potenza, la prepotenza, sapevamo che ci avrebbe aspettato qualcosa a prescindere quando lo abbiamo tirato fuori dalla carta del Vinarium, la storica bottiglieria napoletana di Cappella Vecchia che il 2 febbraio festeggia invece il suo primo ventennio. Così lo abbiamo avvinato con un paio di Brunello Schiena d’Asino 1997 di Mastrojanni, onesto sangiovese ormai compiuto e fermo in una posa classica dalla quale è possibile ormai aspettarsi solo l’inizio del declino.
La prima istruzione dell’uso del Vigna 1999 è quello dello scaraffo perché il fondo bottiglia presenta piccoli residui. Bevuto dopo il Brunello appare chiuso, al limite dell’inespressività, al naso: un vero irpino, insomma. Poi con molta lentezza, diciamo sono necessari almeno una ventina di minuti, il naso inizia a percepire in maniera nitida e chiara la frutta, quella ancora matura e poi quella di conserva, sciroppo d’amarena condensato. La trama narrativa non è affatto monocorde, direi anzi molto complessa, perché evolve poi con le ciliegie in infusione prima di fare largo alla speziatura del legno (balsamico e resinoso) mai volgare o invasiva ma molto ben giocata sulle note del tabacco tostato e poi anche del cuoio. Il rimbalzo prosegue con il ritorno alla frutta sotto spirito e poi alla spezia in un gioco pressoché infinito, tracimando poi in punte di liquirizia e infine di china.
A dieci anni la corrispondenza tra il naso e il palato è sicuramente realizzata: in bocca la materia prima spiazza definitivamente il ricordo del vino precedente e si impone con la sensazione alcolica anzitutto, siamo oltre i 15 gradi per un livello che non è meridionale, ma da Nuovo Mondo, poi con la presenza tannica niente affatto relegata a ruolo di comparsa, gli estratti si fanno sentire nella beva risolta unicamente dalla freschezza mentre il palato riprende le note di frutta soto spirito e quelle del cuoio. La chiusura è lunga, infinita, lascia il palato pieno di ricordi ma anche con una discreta voglia di tornare a berne un poco.
Siamo di fronte sicuramente ad un vino d’antan. Può sembrare un paradosso, ma sicuramente più segnato dalla filosofia enologia in stile anni ’90 di un Montevetrano o di uno stesso Cabernet Sauvignon di Tasca d’Almerita tanto per fare due esempi del Sud e rendere meglio l’idea. L’esibizione muscolare ha il fascino e incute il rispetto di un carro armato che sfila nella Piazza Rossa ma è ben lontana dalla perfezione estetica dei movimenti coordinati di un ballerino, ché quello che manca a questo vino così perfetto e imponente è proprio la finezza, la leggerezza, starei per dire la bevibilità ma sarebbe una forzatura critica eccessiva. E’ dunque sicuramente un vino-evento, che una volta piazzato al centro della tavola fa sempre parlare di sé, ma è difficile pensarlo in un pranzo di famiglia, oppure in abbinamento a piatti che non siamo pezzi di cacio podolico molto stagionato che siano in grado di assorbire l’alcol e i tannini per andare avanti. Il cosiddetto appoggio.
Personalmente sto in una fase di profondo ripensamento sul ruolo dell’Aglianico nella viticoltura del Sud: mentre per i bianchi (Greco, Fiano, Falanghina e tutti gli altri minori) il discorso della classicità è in un qualche modo acquisito, penso che siamo molto lontani dal definire un modello preciso sul grande vitigno a bacca rossa del Sud e mi chiedo se sia davvero possibile berlo assoluto senza merlot o sangiovese prima dei dieci anni. Anche ciò che è legittimo a volte resta inconfessabile, ma sarebbe ora di affrontare le verità così come esse prendono forma in base all’esperienza mettendo da parte l’atteggiamento cattolico del si fa ma non si dice. Forse bisognerà tornare a considerare il discorso del blend, nel Lacryma, nel Falerno e in vini di fantasia tanto per andare fino in fondo del ragionamento. Il fatto è che i bianchi hanno sempre avuto un modello produttivo di riferimento molto ben delineato e diffuso mentre non altrettanto è possibile dire per l’Aglianico che improvvisamente ha dovuto fare i conti con modelli gustativi che non erano i propri, cioé del territorio in cui è sopravvissuto come vitigno autoctono. Insomma, la questione è che l’Aglianico si è affernato in quanto tale quando il vino da esportazione non si misurava più con il cibo ma con uno stile nel bere di tipo non latino, ossia assoluto, da winebar. E il punto che dobbiamo affrontare, alla fine è questo: a quale bisogno risponde un vino come questo? A quello italiano dell’abbinamento o a quello anglosassone del bicchiere alle sette di sera fuori dai pasti? Se la chiave di lettura che gli vogliamo dare è la seconda, allora è un vino da non perdere. Ma se invece fate un percorso a ritroso nel tempo, non considerate vini quelli così concentrati e ricchi di forza, allora sono altre le scelte da fare. In ogni caso, dal punto di vista degli esperti, resta interessante studiare una traccia simile, valutandola nel contesto in cui è sorta e comparandola con le nuove esigenze moderne che anelano vini a basso costo, non eccessivamente concentrati, puliti ed eleganti. Già, perché alla fine la domanda più importante è ancora un’altra: siamo sicuri che il futuro, ma anche il presente, del mercato anglosassone sia costituito da vini che imitano lo stile Napa Valley venduti oltre i 20, i 30 dollari? O non è vero piuttosto che l’Aglianico anelato sia il mite Vignali messo al primo posto da Eric Asimov lo scorso settembre?
Della serie: ci siamo resi conto che alla Casa Bianca non c’è più Bush che gioca con i soldatini?

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Sito: http://www.salvatoremolettieri.it
Enologo: Giovanni Molettieri
Ettari: 7 di proprietà
Bottiglie prodotte: 20.000
Vitigni: aglianico, fiano, greco, coda di volpe