Lucia Migliaccio, sommelier dell’anno per il Mattino: per bere il Mondo bisogna amare la propria terra


Migliaccio

Migliaccio

di Pasquale Carlo

Un anno intenso, nonostante il Covid. Il 2020 è stato l’anno che ha visto suggellarsi il matrimonio perfetto di Lucia Migliaccio con il mondo del vino. Un matrimonio che ha avuto come testimone il Sannio.

Giovanissima, laureata in legge. Il corso Ais le apre le porte del fantastico mondo di Bacco; Aquapetra – la bellissima struttura che sorge sul lussureggiante Monte Pugliano, alle porte di Telese Terme – le spalanca quelle della terra sannita. Domenico Tartarone, l’architetto che insieme alla compagna Patrizia Cante ha fortemente voluto e realizzato questo riposo da sogno, non più tardi di un anno fa le affida il ruolo di wine manager della struttura. Lucia ne fa un trampolino di lancio, grazie anche al feelingcon Luciano Villani, la stella Michelin che guida i fornelli della Locanda del Borgo, il ristorante stellato di Aquapetra. Nonostante i lunghi mesi di blocco, la giovane sommelier veste i panni di wine trotter e inizia a girovagare per le cantine del Sannio. L’obiettivo è stato quello di realizzare una carta di vini sanniti, una sezione interamente dedicata al territorio che va ad affiancare la prestigiosa cantina della struttura.

Dal Sannio al mondo. In dieci vini. La proposta natalizia della sommelier dell’anno guida Campania Mangia&Bevi sprizza l’occhio all’ambiente.
«Per fortuna anche nel mondo del vino il rispetto dell’ambiente diventa sempre più un fattore importante. Credo sia questa l’arma migliore per affrontare i cambiamenti climatici e le criticità che apportano. Per questo mi ispiro al biologico e al biodinamico ma credo sia necessario osservare da vicino chi produce i vini, conoscere i viticoltori, perché i vini buoni sono quelli che rispettano una regola fondamentale,  che vedono l’uomo a servizio dell’uva, non viceversa».

Ovviamente partiamo dai vini frizzanti e dalle bollicine.
«Per partire mi affido a Benepop, il frizzante da uve falanghina e fiano di Terra di Briganti: vinificato secondo le dinamiche ancestrali ha una beva divertente, un’acidità che non stanca mai. Aumentando la complessità ecco Nove Lune di A’ Canc’llera: metodo classiche da uve agostinella, un calice con potenziale d’invecchiamento invidiabile. Ovviamente non può mancare uno champagne. Il mio debole è per il Gran Cru di Marie Noelle Ledru: elegante ma dritto, acidità alta e tagliente come piace a me, stile savoury e trama talcata».

Passiamo ai bianchi.
«Partirei dalla falanghina Flora de I Pentri. Un vino che mostra chiaramente come i vini naturali possono essere fatti bene: pulito e intenso.  Non è un pranzo senza uno chardonnay di Borgogna. E lo chablis è una versione più timida rispetto a quelli della Cote de Beaune, perché in questo periodo di incertezza, i valori dell’eleganza, delicatezza e pacatezza gentile sono quelli da tutelare di più. Se cerchiamo maggiore struttura la troviamo in Vigna Suprema di Aia dei Colombi: un capolavoro da uve falanghina che coniuga vitalità del terreno, resilienza ed armonia della biodiversità. Ancora più intenso è il Kissos di Cantine Tora: falanghina luminosa e brillante, vibrante e dal lungo potenziale».

Il finale, come sempre, affidato ai rossi.
«Porteri in tavola un po’ di Sicilia e opterei per Contrada R di Passopisciaro da uve nerello mascalese, capace di unire un naso delicato e floreale con una lieve nota ematica, tipica del più elegante Pinot Noir con un corpo teso, tannico e alcolico che contraddistingue un Nebbiolo. Un mix perfetto tra eleganza, carattere, grazia e austerità. Guardando alla Toscana ecco il Brunello di Montalcino di Podere Sante Marie, che esprime un profondo legame con la natura e un completo rispetto dei suoi ritmi. Per la chiusura restiamo con i piedi in terra sannita e stappiamo il Grave Mora di Fontanavecchia. Non sono necessarie molte parole per raccontare questa riserva di Aglianico del Taburno, che si porta dietro anche il saldo legame che unisce le persone che lavorano in cantina. Tutti questi vini hanno come colonna portante il fattore umano, una virtù diventata rara. Questa epidemia deve insegnarci a riscoprirla».